22/07/2024
R., 5 anni, e G., 3 anni, sono affetti dalla nascita di cistinosi ma ufficialmente non dovrebbero esserlo in quanto i test diagnostici finora conosciuti evidenziano come loro risultano essere portatori sani della malattia. Ed invece sono entrambi malati, sia pur se in modo leggermente diverso. Misteri della scienza, ma non per i loro genitori che da circa 4 anni vivono questo incubo con grande forza e unità.
Una famiglia che preferisce l’anonimato in quanto vivono in un piccolo centro del Nord Italia e i loro bambini ancora non sanno di avere questa malattia. “Abbiamo deciso così io e mio marito – dice la giovane mamma di 28 anni -. Sappiamo che verrà il momento dir loro tutto, ma sono ancora così piccoli che probabilmente non ne avrebbero una coscienza piena”. Come per tanti altri piccoli pazienti, anche nel caso di R., il primogenito, la diagnosi della cistinosi non è stata immediata. Ci sono voluti quasi mesi per averla, due mesi di peregrinazioni tra un ospedale e un altro, tra ipotesi e sospetti, fino anche a far sentire in colpa una mamma forse solo troppo apprensiva. “Eppure, fino all’anno di vita – dice la mamma – era un bambino che cresceva come tutti gli altri. Pesava 12,3 chili ed era anche abbastanza cresciuto. Nel mese successivo accade che improvvisamente inizia a dimagrire, fino a 4 kg in meno. Beveva solo latte, si svegliava la notte per chiedere acqua e inevitabilmente faceva moltissima pipì. Arrivava a bere tre litri di acqua al giorno. Si bagnava tutto. Non capivo cosa stesse accadendo, lo portai dalla pediatra che prescrisse alcuni esami delle urine.
I test evidenziavano tutti valori sballati, con un eccesso di glucosio tanto che subito si pensò avesse una forma di diabete mellito. Ma gli esami successivi dimostrarono che non era diabete. Il tempo passava e la situazione non migliorava così ci siamo decisi a portarlo in ospedale. Anche qui i medici sembravano voler colpevolizzare me, continuavano a dirmi che ero troppo apprensiva e questo scatenava una sorta di potomania nel bambino (patologia psichiatrica che si manifesta con sete intensa e prepotente bisogno di assumere liquidi, in particolare acqua, sproporzionato rispetto al reale fabbisogno dell’organismo, ndr). Alcuni test per R. erano davvero invasivi: doveva stare anche 8 ore senza bere una goccia d’acqua, con pianti e urla che arrivavano fino a fuori quasi. Per mia fortuna la pediatra di famiglia ha sempre creduto in me, e siccome il bambino continuava a stare male mi consigliò di portarlo a Padova, dove c’è un centro nefrologico infantile di assoluto valore (tra l’altro nella vicina Friuli c’è un’alta concentrazione di malati di cistinosi con almeno 6/7 casi, ndr).
Ci andiamo in ambulanza perché per circa due mesi non abbiamo mai abbandonato l’ospedale. Qui alla fine arriva la diagnosi, cistinosi. Finisce finalmente lo stillicidio di esami e controlli, anche una biopsia renale davvero troppo invasiva per un bambino così piccolo”. E per uno strano gioco del destino la diagnosi della malattia di R. arriva quando la mamma è nuovamente incinta.
Una gravidanza decisa e attesa, ma che probabilmente scatena un’ulteriore preoccupazione nei genitori: sarà malato anche lui. In effetti, avendo scoperto di essere entrambi portatori sani della malattia, i genitori ricevono una parziale rassicurazione dai medici: hanno il 25% di probabilità che il figlio non abbia nulla e il 50% che sia portatore sano di cistinosi come loro. E l’altro 25 per cento che sarà malato come il fratello.
“Ci spiegano che si tratta di una seconda mutazione non prevista, che anche G. avrà la cistinosi. Ma per lui sarà un po’ diverso perché non ci sono perdite di tempo, la diagnosi è fatta ancora prima di nascere si può dire e la terapia si inizia subito. Non è stato facile perché abbiamo rifiutato di mettergli il sondino nasogastrico e lo alimentavamo aprendo le capsule e inserendo la polvere in una soluzione di acqua e zucchero da fargli avere per bocca. Questo fino all’età di 9 mesi perché dopo ha iniziato a prenderle come tutti noi”. E tutto questo la mamma lo fa dividendosi con l’altro figlio. “Avendoli sott’occhio tutti i giorni e dando loro le terapie mi accorsi subito che il piccolo cresceva più del grande, e questo probabilmente perché le terapie erano iniziate da subito”.
Pensate a questa famiglia: due figli nel giro di pochi anni, entrambi malati. Un impegno gravoso, per fortuna la mamma è a tempo pieno con loro, impossibile probabilmente per lei lavorare e stare dietro alle esigenze quotidiane dei piccoli, in una vita scandita da orari, terapie, visite (ora sono in cura all’ospedale) e forse proprio grazie alla sua presenza costante è riuscita finora a nascondere la verità ai suoi piccoli. “Nessuno dei due sa di avere una malattia, e vivono la loro vita nella normalità anche se sanno che hanno degli orari da rispettare per le medicine. La notte portano entrambi i pannolini, pur se è più un’esigenza del maggiore. Non hanno un particolare appetito, R. ama bere il latte ma per il resto non ha la classica fame dei bambini a questa età. Ha una predilezione solo per fragole e melone ma per il resto… Mi capita a volte pure di imboccarlo. Anche per questo è meglio che a pranzo e cena ci sia io a farli mangiare perché con i nonni od altri riuscirebbero a intenerirli coi loro dinieghi. G. ha più fame comunque, anche qui probabilmente ha inciso il fatto di aver iniziato prima la terapia. Non so se tornerò al lavoro oppure no, so solo che a volte ho come un buco di questi cinque anni talmente siano stati frenetici. Vivo coi sensi di colpa, ma comunque vado avanti.
Con la scuola mi sono organizzata: visto che devono prendere ogni 6 ore le medicine e considerato che le maestre non se la sentono di assumersi il rischio di dare loro i farmaci, porto i bambini alle 9 e li vado a riprendere alle 15”. Già, le terapie. Un’angoscia per i genitori, legati da orari precisi e inderogabili. “E’ davvero un grande impegno gestire i tempi in cui dare le medicine ai miei figli. Ogni 6 ore è un lasso di tempo pesante, basti pensare al fatto che li devo svegliare di notte… Senza dimenticare che temo di sbagliarmi tra la terapia di uno e l’altro figlio, sono perennemente con l’orologio. Ma c’è anche il problema del bere acqua e della pipì. Sembrano cose da niente viste da fuori probabilmente, ma ogni cosa che facciamo mio marito ed io è legata queste esigenze. Mi ricordo che quando erano più piccoli e facevamo un viaggio in auto mettevamo loro i pannolini per essere sicuri che anche se non c’era la possibilità di farla fuori loro erano liberi di non stare male. E nel loro zaino, qualunque cosa facciano, non possono mancare mai le bottiglie d’acqua”.
Questo è l’oggi di R. e G. E il domani? Come sarà? Una domanda che si rivolgono spesso tra loro i genitori. Non cercano una risposta, perché sanno che comunque sarà un futuro difficile. Cercano forza. “Siamo preoccupati per il futuro perché siamo di fronte ad una malattia degenerativa, inutile girarci intorno. Al momento loro stanno con noi, vivono con noi. Ci prendiamo cura di loro ma so quel che li aspetta e ci aspetta. Conosco tanti genitori nelle nostre condizioni e anche peggio se è per questo. Arriverà il momento in cui l’insufficienza renale non sarà più sopportabile e si dovrà affrontare la strada del trapianto. Io e mio marito ci faremo tutte le analisi sulla compatibilità, siamo pronti a donare ciascuno di noi un rene per loro.
E quello sarà probabilmente il momento in cui dovremo dir loro tutto sulla loro malattia, troveremo il modo. Forse non basterà, ma intanto andremo avanti sperando che la ricerca faccia ulteriori passi avanti. So che negli Stati Uniti e in qualche Paese europeo c’è già in uso una terapia farmacologica da dare ogni 12 ore. Per noi avere a disposizione questo sarebbe un grande successo. Credeteci”.
Tratto da " Malattie Rare, i nostri figli raccontano" di Claudio Barnini, 27 febbraio 2019